Ritratti #4: Pen-Ek Ratanaruang
Dai su non fate così. Io ci provo con tutto me stesso a non parlare in continuazione dei soliti due argomenti, però dovrebbe bastare il tentativo. Insomma, anche questa volta vi presento un grandissimo asiatico del mondo del cinema. Il secondo argomento che tratto sempre è l’horror (anche se immagino che Damiano avrebbe puntato dieci Euro sul mise en abyme, ma quant’è che non lo nomino? Conto i giorni come gli alcolisti anonimi). Insomma, questo breve ritratto è dedicato a Pen-Ek Ratanaruang. Il cognome scioglilingua non lascia adito a dubbio alcuno: ci troviamo di fronte a un thailandese puro al 100%.
Ratanaruang tuttavia non fa affatto parte della corrente mainstream e commerchiale della Thailandia, quella fatta di calci in bocca alla Tony Jaa, Prachya Pinkaew, Panna Rittikrai, Chalerm Wongpim e compagnia cantante. Il buon Pen-Ek fa parte di quella autorialità che pare fuori luogo in una industria cinematografica volta più che altro alla conferma dello stereotipo da incasso.
Andiamo dunque ad analizzare brevemente la scaletta della carriera di questo relativamente giovane (classe ’62) regista. Che conta in totale sette lungometraggi (uno nuovo in fase di riprese, pare), di cui per una ragione o per l’altra, ne ho visti sei.
Salterò dunque l’esordio Fun Bar Karaoke per parlare invece di Ruang talok 69, divertentissima commedia nera del 1999. Un po’ pulp (stiamo comunque parlando degli anni ’90: perdonatelo), un po’ incredibilmente british, in questa prova Ratanaruang si rifà, più che a Tarantino, ai fratelli Coen. Non molto di più che un film divertente e spensierato, ma perfetto nel suo genere. Per essere un secondo lungometraggio, tanto di cappello.
Terza prova è forse una delle più riuscite, Monrak transistor. Bellissimo film che ci ricorda quanto una piccola connessione tra i sogni e il passato come una quasi insignificante radio possa fare la differenza tra il non avere niente e il trattenere tutta l’esperienza che, nel bene e nel male, fa parte di noi. Decisamente uno dei miei preferiti di Pen-Ek.
Arriviamo a quello che probabilmente è il film più conosciuto di Ratanaruang e, per quanto mi riguarda, nettamente il più sopravvalutato. Mica per altro, Last life in the universe brutto non è (affatto!), ma essendo meno bello sia di Ruang talok che di Monrak transistor che non godono della stessa fama, qualcosa vorrà pur dire. In Last life of the universe Pen-Ek si confronta con lunghi silenzi e atmosfere dilatate non ben riempite dall’altrimenti bravissimo e celeberrimo Johnny Depp giapponese (al secolo Tadanobu Asano). La tematica dell’uomo in fuga dal passato (in questo caso la yakuza) è trattata con garbo e interesse, ma non aggiunge molto alla vasta filmografia del genere. Molti commenti favorevoli si sono spesi poi sul cameo finale di Miike Takashi che tuttavia, per quanto possa amare questo regista, fatico a non considerare insipido.
Nel frattempo si è fatto il 2006 e con lui arriva Invisible waves. Ancora una volta c’è Asano davanti alla macchina da presa, ancora una volta in fuga da una colpa del passato. Quasi un remake del precedente sia per temi che per modalità espressive. Ne risulta ancor meno ispirato, pur mantenendosi su livelli dignitosi (l’ho già detto che Last life in the universe è comunque un signor film, vero? Ecco, questa ne è la testimonianza).
Ploy rappresenta credo il momento più basso della carriera di Pen-Ek. Intendiamoci: per tematiche il film rappresenta quello che dà il la al peggior cinema italiano. Fortunatamente il regista thailandese non è affatto un mucciniano e questo salva l’intero progetto. Atmosfere, come sempre, fantastiche. Ma dietro questo fumo c’è meno arrosto di quello cui Pen-Ek di solito abitua.
Il film della risalita si chiama Nymph. Ratanaruang decide di dare un tocco di elementi narrativi propri del fantastico a quelle atmosfere da sogno e realmente oniriche che sempre hanno caratterizzato il suo cinema. Il risultato, soprattutto nelle sequenze forestali che aprono la pellicola, è veramente notevole. Sempre che riuscitate a sopravvivere alla prima inquadratura del film, abbastanza Tarkovskijana. Non raggiunge le vette dei primi tre lungometraggi di cui vi ho parlato, ma è decisamente qualcosa che la maggior parte dei registi, al momento, si sognano.
Credo di aver fatto il mio dovere per oggi, portandovi a conoscenza di un piccolo pezzo di cinema che, se siete affini a certi sentimenti di affetto per quanto riguarda quest’arte, di sicuro vale la pena di scoprire. Ma alla fine di questo viaggio… Sicuri di non voler parlare un po’ di mise en abyme?
Saluti,
Michele