Scott Pilgrim vs the World
Scott Pilgrim suona il basso in una band underground, ha una vita che assomiglia a un videogioco e intrattiene relazioni superficiali con ragazzine più giovani di lui perché ancora non ha superato una rottura del passato che lo ha segnato nel profondo. Tratta da un fumetto (di cui non ho letto nemmeno una pagina) e oggetto anche di uno spin off videoludico alla Double dragon, questa storia cambia completamente la sua piega quando Scott Pilgrim si innamora di nuovo e sul serio. Ma per coronare il suo sogno dovrà affrontare in combattimenti all’ultima vita i sette malefici ex della sua nuova fiamma Ramona Flowers.
Salta subito all’occhio, in questo Scott Pilgrim, il particolare modo con cui si è scelto di trasportare la pagina stampata sullo schermo di un cinema. In particolare si cerca la massima fedeltà onomatopeica, ma anche di costruzione di immagini spesso impossibili e volutamente esagerate. Si nota un tentativo di ricalcare e portare all’estremo il modo di concepire il fumetto cinematografico di Ang Lee. Non ci sono grosse novità o rivolutioni mai viste prima dunque. Tuttavia Scott Pilgrim rappresenta un altro passo in avanti, un gradino in più sulla scala evolutiva. Ancora una volta lo schermo del cinema viene trattato proprio come una tavola su cui la matita può muoversi liberamente, tra split screen, scritte a video e martelloni giganti. Come e meglio dell’Hulk con Eric Bana. E Scott Pilgrim diviene l’esponente più all’avanguardia meritevole di stare a pagina uno di ogni manuale per l’utilizzo artistico degli effetti speciali. Scordatevi vuote perfezioni alla Michael Bay e Industrial Light & Magic: qua ci sono pixel in bella mostra, perché in funzione del richiamo al videoludo da bar che vogliono omaggiare.
Se la scelta di mettere a schermo la Pee bar come nei Sims, o di far esplodere i nemici trasformandoli in monetine come nei vecchi coin-op risulta vincente nell’assoluta maggioranza dei casi, tuttavia ogni tanto questa omnipresenza espressiva risulta un po’ pesante. E’ fondamentalmente il primo, e meno importante, dei difetti del film. Perché continuare a ribattere con tutta questa computer grafica quando non ce n’è bisogno è fastidioso e porta lo spettatore ad indisporsi verso questo uso talvolta gratuito. D’altronde Wright, il regista del film, non poteva intervallare troppo bruscamente le scene d’azione (o anche solamente quelle in cui l’espediente della computer grafica è necessario e funziona) con le parti di transizione. Una volta che si sceglie una strada la si deve percorrere fino in fondo, altrimenti si fa la figura di un patchwork frankensteiniano. Sarà solo il suo terzo lungometraggio, ma Edgar Wright già ha il polso e la consapevolezza di un veterano.
Superati i dubbi sul fumo, rimane un succosissimo arrosto per gli spettatori. Perché Scott Pilgrim concilia delle scene d’azione estreme, di godurioso intrattenimento girate allo stato dell’arte, a una sceneggiatura incalzante, moderna e a tratti esilarante. Il ritmo è serratissimo e nelle battute iniziali richiama quello che era il peggior difetto di Hot fuzz, precedente film di Wright: la difficoltà di gestione dei tempi comici nel voler dire troppo. Hot fuzz tormentava il suo spettatore con un ritmo troppo serrato e incalzante, senza lasciare un attimo di respiro. Respiro ce n’è poco anche in questo Pilgrim, ma questo non è affatto fastidioso. Anzi: ci si chiede, sinceramente stupiti, se Wright finirà mai le idee prima della fine della pellicola (e la risposta è no).
La sceneggiatura rasenta il perfetto. Non solo per le esplicite battute e scenette che, complice un Kieran Culkin in pienissima forma, potrebbero tranquillamente reggere da sole la pellicola (a tal proposito vale la pena notare come il film sia zeppo di situazioni memorabili ed instant cult creati da zero: tutto il contrario di, per esempio, The expendables che da zero non partiva affatto, con il suo esplicito richiamo a una memoria collettiva comune, e che di fatto non contiene nemmeno una battuta da ricordare dopo i titoli di coda: disgustorama). Ma anche, e soprattutto, per la capacità di trattare temi nient’affatto banali evitando sia di dargli troppa pesantezza, sia dello scivolare nelle banalità. Su tutte il duello finale in modalità rewind che ci riesce a far capire (sempre richiamando più volte la metafora videoludica) quanto, prima di strombazzare pompose frasi e grandi sentimenti d’amore come nemmeno l’ultima frasetta condivisa su Facebook e rubata da qualche Bacio Perugina, forse è meglio imparare a conoscere, apprezzare e salvaguardare noi stessi. E solo dopo questo inevitabile processo di maturazione riuscire a trovare lo spirito d’amare. (Oddio, per evitare si può anche evitarlo, ma la conclusione sarebbe finire a scrivere come una PyKkΘlyNα91 qualsiasi).
In tanto ben di Dio sceneggiativo viene da chiedersi come mai, e qui parlo del maggiore dei difetti di Scott Pilgrim, ogni tanto ci siano delle cadute di stile così pesanti. Mi riferisco in particolare al ruolo che ha nel finale uno dei personaggi secondari più importanti della storia. Questo personaggio meritava di essere trattato con ben altro spessore, invece il suo comportarsi in maniera illogica e solo funzionale alla conclusione svilisce un po’ il tutto, forza dell’ultimissima parte del film compresa (che dà l’inconfondibile sensazione di non piena soddisfazione). Di personaggi monodimensionali è zeppo il film, ma questo non è necessariamente un problema quando il personaggio nasce e muore per quel ruolo (specie i cattivi). In particolare, un altro dei grandissimi meriti del film è quello di farci sorridere sia stigmatizzando molti stereotipi (il mirror match di Mortal Kombat!) sia rispettandone altri in pieno e ben oltre le aspettative.
Scott Pilgrim alla fine merita in pieno la promozione che gli elargisco a pieni voti (sì, potete andare a sbirciare in fondo, ve lo concedo). Non va oltre e si ferma un gradino sotto al lungometraggio di esordio di Wright, ovvero quel gioiellino che risponde al nome di Shaun of the dead. La mia convinzione è che l’accoppiata Wright-Pegg sia maggiore della somma delle sue due componenti prese separatamente. A tal proposito vedere anche le altre pellicole in cui Pegg recita “da solo”: Run fatboy run (divertentissimo, ma niente più) e Star system (neanche divertente). Wright, come Pegg, comprende che il passo dall’Inghilterra all’America è qualcosa che vale la pena di fare. E lo fa molto meglio di Pegg, a dirla tutta: se quest’ultimo diventa pupazzo relegato allo stereotipo proprio di quello star system di cui dovrebbe fare satira, Wright invece lega alle sue redini un’icona ormai ben stampata nelle menti americane con operazioni d’immagine francamente impeccabili (Michael Cera) e lo fa diventare quello che lui, inguaribile portatore sano di humor bitannico, vuole. (E ben si sa che Cera senza dietro un cineasta solido, come ad esempio Reitman, possa finire a fare: si veda il pessimo Nick & Nora)
Una serata al cinema ottimamente spesa, se siete nostalgici da sala giochi. Garantito Five Obstructions.
4 / 5
Saluti,
Michele
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