The Last Airbender
Su Giornalettismo paiono avere grossa crisi: è un paio di settimane che saltano la pubblicazione della recensione che gli ho mandato. Quindi per vendicarmi pubblico direttamente qui quella che avrei dovuto spedire dopo quella che hanno già, ovvero quella che avreste dovuto leggere oggi. Si tratta di The Last Airbender, ultima fatica di M. Night Shyamalan.
M. Night Shyamalan prosegue nella traiettoria, tutta personale, della decostruzione della tradizione Hollywoodiana combattuta proprio sul terreno di Hollywood. Genio che vuole essere incompreso o cialtrone?
Il regista indiano è stato per il grande pubblico una delle più emozionanti scoperte di inizio XXI secolo. Il suo stile di regia apparentemente accessibile e una decisa propensione per il money shot d’impatto lo hanno reso popolarissimo all’inizio della sua carriera (poco importa se sia cominciata effettivamente nel 1992, per tutti il suo battesimo è avvenuto sette anni dopo). All’epoca della loro uscita, film come Il sesto senso e Unbreakable divennero cult all’istante, senza passare dal via. Il grande pubblico ha quindi sentito subito “suo” Shyamalan e ha riposto su di lui grandi aspettative e la condanna a poter solo fare remake di se stesso. Ma fin dal francamente imbarazzante Signs il regista indiano ha forse capito che quella dell’eterno rifarsi non era una strada percorribile senza scendere nel ridicolo. E ha deciso di dare una svolta alla sua carriera che definirei, pur rischiando di essere preso a pernacchie, vontrieriana. Purtroppo per Shyamalan, questa sua scelta ha esibito lui alle pernacchie, e sono abbastanza sicuro che l’accoglienza che il grande pubblico ha riservato a pellicole come Lady in the water e The happening sarà ripetuta, mille volte più forte, anche per The last airbender.
Il film è un adattamento della serie animata statunitense andata in onda a partire dal 2005. In particolare il film è un adattamento integrale della prima delle tre stagioni, denominata “Book of Water”. In pratica si tratta di un accrocchio abbastanza pasticciato di mitologie orientali che spaziano dall’India alla Cina alla sempre verde, e dal mai abbastanza deprecato abuso, della simbologia dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco). Ma d’altronde anche la serie televisiva era della stessa pasta, quindi poco c’era da rovinare. La storia tratta dell’Avatar, un essere leggendario in grado di parlare con gli spiriti e mediare la loro guida sulle quattro nazioni del mondo, ognuna simboleggiata da uno degli elementi e patria dei “bender”: uomini in grado di manipolare il proprio elemento per combattere. Cento anni prima dell’inizio del film, la reincarnazione dell’Avatar scompare senza lasciare traccia. La pellicola parte proprio dal ritrovamento dell’Avatar nella nazione dell’Acqua del Sud, da parte di una coppia di fratelli. Aang, l’Avatar, viene poi rapito dalla nazione del Fuoco, che si scopre essere responsabile dello sterminio del popolo dell’Aria e desiderosa di distruggere l’Avatar per espandere il suo dominio sul mondo intero.
E’ meglio mettere in chiaro subito una cosa: The last airbender non vi piacerà. No, è inutile anche solo provarci: uno lo può apprezzare per alcuni motivi, ma non è possibile che gli piaccia. Innanzi tutto è un film montato letteralmente a caso: durante i combattimenti ad esempio i personaggi si trovano in una situazione e al successivo stacco di montaggio si trovano da tutt’altra parte con tutt’altri nemici da affrontare. E’ poi scritto anche peggio. A parte le continue infrazioni alla regola non scritta dello “show not tell”, ogni tanto scivola in scene che fanno rimanere letteralmente basiti: Shyamalan (autore anche della sceneggiatura, ricordiamo) non si prende la briga nemmeno di fare una scena di tre minuti per far capire allo spettatore che Tizio si innamora di Tizia, ma appena presenta il personaggio di Tizia ti dice col voice off “E Tizio se ne innamorò”, inquadrando il suo sguardo languido. Lasciamo poi perdere gli abbozzi di scenette comiche, oppure il fatto che ogni sacrosanto personaggio deve spiegare a parole nei dialoghi i suoi stati d’animo e il suo background, ve ne prego. D’altronde stiamo parlando di un film in cui una fusione tra l’India e gli All blacks (la nazione del fuoco è capitanata dal mai troppo osannato maori Cliff Curtis) è intenta ad abbrustolire degli esquimesi fricchettoni (le due nazioni dell’Acqua) e una versione non comunista dei cinesi (la nazione della Terra). Insomma, dai.
Tutti questi elementi stanno al cinema come La Febbra (“Sciamalaiaaa!”) sta al Sesto senso. Sembra fin troppo facile giudicare un film del genere. Quindi ci deve per forza essere qualcosa che ci sta sfuggendo. Se ci si sofferma a pensare com’è impostata la filmografia di Shyamalan, come proposto nell’introduzione di questa recensione, ci si deve rendere conto di una cosa. C’è un senso di continuità, di evoluzione guidata, di pianificazione della sequenza dei film realizzati dal regista indiano. Parte da una regia che più Hollywoodiana non si può (Il sesto senso), la porta al suo esacerbarsi e al marcire (Signs), la ribalta in una bella (meta)critica cinematografica (Lady in the water) e infine la prende sonoramente per il culo (The happening) e noi con lei. Non a caso la situazione complicata tra Marky Mark e il ficus di plastica è diventata un meme su Internet troppo gusto per esimersi dall’irresistibile citazione. Ma non lo tiro in ballo per rimarcare l’ovvio. Quanto per fare notare come, visto con gli occhi della parodia a volte implicita a volte esplicita, c’è più sugo in The happening che ne Il sesto senso e Unbreakable messi insieme.
A questo punto vien ancora di più da sottolineare il paragone con cui ho aperto il paragrafo precedente: è vero che The last airbender sta al cinema come La Febbra sta al Sesto senso, nel senso che è superiore a ciò di cui è parodia perché dietro la sua stupidità è intelligentemente divertente e insospettabilmente colto (proprio come gli esordi di Maccio Capatonda). La domanda se The last airbender è effettivamente la schifezza che sembra sorge spontanea anche quando si vedono alcuni dei temi trattati. Viene sottolineata più di una volta la paura del protagonista di diventare un simbolo, di dover sacrificare se stesso e l’intera vita “normale” a cui aspira per divenire il punto di riferimento di un intero mondo, un peso in grado di schiacciare la testa di chiunque.
E Aang che rifiuta di essere l’Avatar non è forse lo Shyamalan che, schiacciato dalle richieste di girare un famigerato “Il sesto senso 2”, si rifiuta di essere il punto di riferimento per lo stato dell’arte del colpo di scena? Non è forse lecito aspettarsi da chi prima prende a pernacchie la critica (Lady in the water) e il suo pubblico di nicchia (The happening) un coro di pernacchie anche per il grande pubblico Hollywoodiano? Il suo percorso lo ha portato su territori vicini a quelli di Lars Vont Trier: lo sberleffo e la provocazione fine a se stessa. Il regista danese, pur nei suoi eccessi (Antichrist, Il grande capo, Dogville, Le cinque variazioni), rimane sempre in grado di girare malissimo tecnicamente, ma oltre il divino per quanto riguarda tutto il resto che gravita attorno al mondo del cinema. Shyamalan ne è quasi il totale opposto, con le sue riprese ancora lontane da un’autorialità indipendente da Hollywood. Insomma: due sono le ragioni per salvare, se lo si vuole, The last airbender. Una è la classica “Talmente brutto che è a un passo dal sublime” (è una citazione), l’altra è l’autorialismo alla Von Trier. Sfortunatamente non sono del tutto convinto della seconda.
Saluti,
Michele