Antichrist
Riassunto del film: Von Trier decide di far elaborare allo spettatore il lutto del rapporto che ha con l’”altro” e lo fa mediante due maschere. Maschere che perdono il frutto della propria unione mentre cercano di perpetrarla. Da quel momento comincia un sofferto cammino da parte del protagonista psicanalista nel cercare di tirare fuori la moglie dal suo stato di schock. E “sofferto” è decisamente il termine più adatto.
Premessa alla recensione: le cose da dire su questo film sono tante. Troppe direi, per essere raggruppate in un testo organizzato. Le lascerò fluire attraverso alcuni paragrafi in seguito, volutamente senza un ordine prestabilito. Farò salti avanti e indietro, considererò le stesse cose con una certa ridondanza tralasciandone altre. Perchè questo è Five Obstructions e questo deve fare quando approccia un parto della mente che l’ha ispirato.
Antichrist prima di tutto è un horror. Non lo si può certo negare. Più difficile è però definire esattamente “che tipo” di horror sia. Ha delle parti certamente surreali, psicologiche, perfino commercial-slasher alla Martyrs. E ognuna di queste parti è capace di inserirsi omogeneamente nelle precedenti e nelle successive formando un tutt’uno che nega i suoi atomi costitutivi per affermare la sua unicità. Non esiste un altro film come Antichrist, questo è sicuro.
Il risultato è profondamente disturbante, perchè lo zio Lars è capace di spingere sul pedale dell’acceleratore della violenza (psicologica e fisica) come pochi altri. Impressiona meno della scena madre di Epidemic, di un disturbante quasi ai livelli del Salò di Pasolini, ma condivide con essa tutte le fondamenta su cui poggia il progetto. Fondamenta anarchiche, scherzose e ironiche, profonde esagerazioni di quell’esorcismo che l’horror è da sempre chiamato ad eseguire sulle paure e sui mostri che ci crescono dentro giorno dopo giorno. Se non ci fosse l’horror saremmo tutti un po’ più mostri. Se in Epidemic questo era spiattellato in faccia (la sceneggiatura che prende vita), qui siamo a livelli molto più sottili e universali.
Ne esce un film che è certamente più debole a livello organizzativo. La struttura scelta prevede l’utilizzo delle classiche fasi di elaborazioni del lutto (altra splendida idea meta-narrativa: perchè l’horror ci fa elaborare il lutto della nostra anima), scelta che si porta con sè una certa dose di sbadigli nella prima parte del film. Non tutto è da buttare (affatto!) in quanto ci sono dei precisi innesti alla maniera di Mulholland dr. che tengono lo spettatore sul chi vive: qualcosa sta per esplodere, questo è certo.
Un’elaborazione quindi del dolore interno a una persona, che segue cadenzate fasi di maieutica di questo dolore. Piano piano viene alla luce nel terzo capitolo tutto il castello di cui fino ad allora si intravedeva qualche pietra nascosta nell’edera. E’ il rapporto con il complementare a spaventarci, l’opposto che è proprio “opposto” da “opponente”, “nemico”. Un rapporto fatto di un carico di perversione che Von Trier stesso sente fluire sulle sue spalle.
E’ da qui che parte un’altra idea geniale, che dà titolo e stile al film: il richiamo medievale. Analizzando puramente l’operazione estetica non si può far a meno di notare la perfezione. Perfezione nel ricreare situazioni e atmosfere che fanno parte di un passato recondito dell’animo umano, qualcosa che quando lo vedi sai essere sempre stato reale e presente “da qualche parte”, ma che pensavi essere perso per sempre ormai nelle spirali del tempo. E Von Trier l’ha ripescato con una maestria che sorprende ancora di più pensando a quanto incapace si sia mostrato in passato in quasi tutti gli aspetti del comparto tecnico dei suoi film. Atmosfere che fanno ripensare all’Andrei Rublev o allo Stalker del Tarkovskij a cui, senza sorpresa, è dedicato il film.
Ma la violenza medievale, il sesso sporco (la scena dell’amplesso sotto l’albero, ma anche la conclusione coi cadaveri intrecciati nei cespugli) vanno oltre, nel suggerire nuovi livelli, ancora più terribili, in cui avviene il contrasto col nostro opposto. Non sono quindi mera tecnica fine a se stessa.
Concludo (anche se non vorrei) con l’esaltazione di uno degli aspetti del film che potrebbero essere erroneamente catalogati come difetto. Ovvero l’impersonale recitazione dei due protagonisti e i dialoghi completamente slegati dalla realtà e quasi “stupidi”. Queste sono considerazioni solo superficiali che non considerano il fatto che gli attori, in particolare Dafoe, sembrano essere costantemente coscienti di non essere persone, ma interpreti, vasi, tubi attraverso cui fluisce qualche cosa di altro. Non è un caso infatti se nessuno dei due ha un nome: sono maschere, caratteri, archetipi di una storia eterna e più grande di loro.
Insomma il film sa di essere tale e si prende delle libertà nei confronti dello spettatore come nella scena iniziale dell’ospedale, in cui frettolosamente Von Trier dedica la sua attenzione ai gambi dei fiori nel vaso. Sembra quasi voler fare il verso al Lynch di Inland Empire, e male verrebbe da aggiungere. Se non fosse invece qualche cosa di completamente diverso, che con le masturbazioni lynchiane non ha nulla a che vedere. E’ un anticipo, un assaggio di dove andrà a finire il film.
E cioè in qualcosa che ho già detto prima (vi avevo avvertito che era una recensione sincopata). A me non resta che abbandonarvi a un numero privo di significato, conscio di aver scritto meno della metà di quanto avrei voluto (e data la lunghezza di questo sproposito spero che almeno mi ringrazierete per questo pudore nell’ammorbarvi ancora di più).
5 / 5
Saluti,
Michele
Stritolare il braccio del mio vicino di poltrona, nelle scene più Crude, era piuttosto inevitabile visto che sono la fifona numero uno che però non può far a meno di andare a vedere film di questo genere.
Pardon. Pensandoci bene, film di questo genere forse non ne avevo ancora visti, perchè è un horror che si stacca dagli horror, è un film che è una cosa a se stante. Credo. (E si sono ignorante in materia)
Scene non viste a parte, è stato bello. (No, non il braccio del vicino di poltrona..il film!)
La fotografia è stata un solletico al mio “dito a scatto”, e i capitoli che intrecciano la storia il solletico alle immagini oniriche quasi distorte che prendono forma nella mente di tutti quando ne perdiamo il controllo.
Lo ammetto, adesso per qualche giorno darò due giri di chiave in più alla porta la sera, e dormirò con un bastone vicino al letto, probabilmente.
Ma almeno, ne valeva la pena.
mi sono spaventato al secondo paragrafo e ho smesso di leggere.
quand’è che parli un po’ dell’allenatore nel pallone?