Film

State of play

State of play racconta una classica vicenda investigativa svolta a livello giornalistico. Il fulcro della storia è la morte di una ragazza, amante di un membro del congresso impegnato nell’inchiesta a carico di una compagnia di mercenari di cui è cliente il governo americano. Appare ovvio a tutti (gli spettatori, non i personaggi) che questa morte non è affatto accidentale, ma legata in qualche modo all’affare politico. E sarà compito di Russel Crowe, esperto e datato giornalista, fare luce sul caso.

La mia svogliata sinossi smaschera abbastanza facilmente qual è il principale, e forse unico, problema del film. State of play infatti è un film indubbiamente impacchettato bene, in cui ogni cosa sta al suo posto. Ma il problema è proprio che tutto sta al suo posto. Macdonald ha scelto un genere, quello dell’indagine sulla cospirazione politica, e ne rispetta pedissequamente tutti i clichè e gli stilemi espressivi (il falso finale, per dirne uno). E’ un male o un bene? Entrambi. E’ un male perchè tutto ha un’aura di già visto, di prevedibile. Non stupisce e probabilmente dopo una settimana ci si dimentica perfino di averlo visto. E’ un bene perchè in fondo se quei clichè si sono affermati un motivo c’era, e cioè perchè funzionano dannatamente bene a livello di intrattenimento. Il film scorre che è un piacere e non vi troverete mai a pensare ad altro durante la proiezione.

Rimane comunque l’impressione che tutto sarebbe potuto essere assai migliore di come viene presentato. Scegliere una regia classica non vuol dire necessariamente appiattirsi sul riprendere con taglio televisivo tutto ciò che accade davanti alla macchina da presa (difetto che ho riscontrato ad esempio in Bruiser di Romero, in cui il basso budget ha tagliato le gambe al regista in una storia che avrebbe meritato un occhio molto più colorato ed espressionista). D’altronde non credo si possa chiedere molto di più al buon Kevin Macdonald: è nato per dirigere quel piccolo gioiello di Un giorno a Settembre e artisticamente adesso si sta limitando a sopravvivere (vedi l’altro discreto/mediocre L’ultimo re di Scozia).

Se State of play ha un merito, allora è quello di un utilizzo finalmente cosciente e maturo a livello narrativo della tecnologia. Ancora oggi infatti capita di notare nei film investigativi meno curati (ma anche in clamorosi film più ad alto budget) scivoloni tecnologici clamorosi, quali l’utilizzo di floppy disk o di interfacce di programmi informatici e sistemi operativi inesistenti. Sono errori che potrebbero sembrare marginali, e spesso lo sono, ma non aiutano a far sentire il pubblico partecipe a una ricostruzione vicina alla realtà, con il suo conseguente allontanamento scettico dalle vicende narrate. State of play invece è intelligente nel riuscire a trattare la tecnologia per quello che è: una componente ormai altamente interconnessa alle nostre vite di tutti i giorni. E finalmente vediamo giornalisti che usano davvero Internet per alcune delle loro mansioni.

Considerazione che ci porta forse alla parte più arguta del film: la sottotrama “Penne versus Blog”. Che può essere letta come una delle classiche morali passatiste in cui il vecchio leone esperto rimane scettico riguardo i nuovi e moderni mezzi per fare ciò che lui ha imparato con “la vecchia scuola”. Se normalmente queste sono banalità di chi non sa inserirsi nel moderno e capire che lo strumento non cambia la qualità ma solo il mezzo, Macdonald sa modularle attentamente e intelligentemente, evitando di scadere nel populismo facilone. E allora le battute di Crowe contro i blogger risultano salaci e appropriate, rivolte verso un mondo di sicuro interessante, ma ancora pieno di cialtroni che ritengono che il solo mezzo (il blog) renda interessante quello che hanno da dire (niente) solo perchè possono rendere tutti partecipi (sì, state leggendo queste cose su un blog :) ). Tutto ciò significa che le cose importanti sono ancora la preparazione e l’avere davvero qualcosa da dire, e il mezzo da utilizzare arriva solo dopo.

Alla fine restano come buona impressione anche i titoli di coda, un piccolo viaggio dalla penna al lettore visto con gli occhi della pagina stampata. Ma anche per questo aspetto vale il discorso generale che vale per tutto il film: non è niente che non sia già stato fatto, e pure parecchio meglio (nel particolare: rivedere i titoli di testa di Lord of war di Niccol).

3 / 5

Saluti,

Michele

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