Primer
Trama: alcuni scienziati trentenni (ingegneri, fisici, matematici) si riuniscono tutti i giorni dopo il lavoro in un garage per portare avanti i loro esperimenti, i loro sogni di fare la scoperta del secolo. Il loro obiettivo: un dispositivo antigravità da vendere a peso d’oro alle compagnie di trasporto. Il loro risultato: una scatola per viaggiare nel tempo.
Primer è una bellissima ventata di freschezza nel mondo del cinema. E fare una considerazione del genere dopo la descrizione della trama in apertura pare un controsenso, visto che quanto esposto sembra avviarsi sui binari del trito e ritrito. I viaggi nel tempo sono stati ormai considerati (più volte) da quasi tutti i punti di vista possibili: dalla fantascienza pura alla parodia, dalla commedia alla storia d’amore.
Appunto: ho detto “quasi”. La fantascienza infatti ha un dono raro tra tutti i generi, che ne fa di me un estimatore: il poter essere un meta-genere, qualcosa che va al di là del genere stesso. Fare fantascienza significa darsi delle piccole regole, ma gli approcci possono essere totalmente diversi. Si può vedere Star Trek, in cui la fantascienza si riduce ad esplorazioni di frontiera e battaglie tra sottomarini, o Star Wars, un vero e proprio western medievale. Primer incarna una visione assolutamente innovativa del genere, un approccio ingegneristico e realistico su cui pone delle solidissime basi. La sua esistenza infatti è un inno a due cose: la solida preparazione in fase di scrittura e una visione filosofica e non superficiale del mondo.
La prima si incarna nella gestione più attenta e soddisfacente del paradosso temporale. Mai ho trovato una pellicola che riesca ad evadere dai soliti due o tre stereotipi e dalle facili trappole in cui cadono quasi tutti i film recensiti nella variazione di questa settimana (e tutti i loro colleghi). E soprattutto il modo con cui viene trattato l’”isolarsi dall’ambiente”, metodologia con cui evitare il paradosso, fa scaturire interessanti riflessioni sulla nostra visione parziale e soggettiva del mondo. Fintanto che noi osserviamo i fenomeni della nostra vita dalla nostra prospettiva non siamo in grado di comprenderli a fondo e di manipolarli. Come insegna il gatto di Schrodinger anche il nostro semplice osservare gli eventi li cambia e non c’è nulla che possiamo fare. L’unica cosa che ci è concessa (in realtà non lo è, ma in Primer sì) è non osservarli e quindi poter avere su di essi un potere infinito. Uscire dall’ottica individualista e soggettiva è il mezzo con cui ottenere un potere sovraumano… Peccato sia impossibile!
Il secondo aspetto è la profondità di vedute che Primer riesce a dare al suo mondo. Il suo approccio smodatamente scientifico può risultare ostico a molti spettatori che non hanno familiarità o affinità con tale visione. Spesso vi è un rifiuto, un po’ dettato dal non riuscire a seguire con facilità dialoghi che presuppongono conoscenze di matematica e fisica, ma soprattutto perchè si ritiene essere una modalità antispettacolare o anticinematografica (antiartistica, direbbe qualcuno). Nulla di più sbagliato.
E’ infatti convinzione non solo mia che l’arte e la filosofia, in eterno evolversi, siano sempre state intimamente connesse con la scienza e la tecnica. Sebbene sia uno stereotipo vedere arte e umanesimo in generale come opposti alla scienza e all’informatica, questo non è mai stato così falso. Tutti gli artisti e i filosofi sono stati in prima battuta scienziati e tecnici. Socrate aveva conoscenze all’avanguardia sulle tecniche comunicative di allora (la scrittura), così come le avevano grandissimi artisti come Leonardo o i più influenti filosofi che la storia ha ormai sancito come fondamentali per la visione del mondo che si è affermata nel XXI secolo: Galileo e Leibniz. Così come la filosofia fondamentale del secolo scorso non è affatto Nietzsche, ma bensì è figlia di “informatici” quali Wittgenstein e Turing.
E allora ben venga la scatola del mistero e del miracolo quantistico di Primer, con tutti i suoi stilemi espressivi. Perchè se ci rifugiamo nelle classiche storie di viaggi nel tempo superificali di una filmografia classica (che non è in toto da buttare eh! Solo che non si può pensare che sia possibile reiterarla in eterno) allora siamo come quei parrucconi che dicono di essere filosofi solo perchè si sono studiati un mattone di milletrecento pagine sull’illuminismo. E dato che questi parrucconi non sanno neanche cos’è un mouse, non si accorgono di come le frontiere filosofiche sulla conoscenza e la mente umana avvengano ormai tra i collegamenti elettronici di un chip.
4 / 5
Saluti,
Michele
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