Triangle
Jess è la giovane madre single di un problematico bambino affetto da una grave forma di autismo. Il suo mondo è interamente dedicato a lui, ma umanamente anche lei ha bisogno di piccole pause. Accetta quindi l’invito per una piccola crociera nella barca a vela dell’amico Greg, che da un po’ di tempo cerca di abbordarla alla tavola calda dove lavora. Con loro ci sono gli amici del liceo di Greg e un muscoloso mozzo che farà la felicità ormonale di molte spettatrici. Purtroppo però la regata si trasforma ben presto in un incubo: prima arriva la bonaccia, poi una tempesta ribalta la barca di Greg. Quando i nostri sventurati paiono destinati a lasciarsi andare alla deriva, una nave da crociera arriva in loro soccorso. Ma, come da buona tradizione del cinema horror, l’incubo è appena cominciato.
Da buon cineasta capace di produrre pellicole sempre interessanti, Christopher Smith decide con Triangle di giocare a un gioco molto pericoloso con i suoi spettatori. La pellicola che sto recensendo, infatti, si presenta come un piccolo enigma volto ad accendere l’intuizione di chi guarda per fargli indovinare ciò che succederà sullo schermo di lì a poco. Generalmente, un regista che pone la propria opera su questo piano fallisce. Perché per quanti film un professionista possa aver girato, esisteranno sempre cento e più appassionati che ne avranno visti almeno il triplo, e dello stesso genere.
Non fa eccezione Triangle, almeno per il mio piccolo curriculum di cinefilo. L’argomento è l’eterno ritorno, e povero Smith se fosse davvero la sua reale intenzione sfidarmi su questo campo. Una volta che si capisce che il meccanismo è quello della reiterazione temporale , rimangono quindi poche altre possibilità al regista. Può, come in Timecrimes, cominciare a instillare il dubbio nello spettatore che ci sia sempre un livello successivo, e che quindi la realtà attuale non sia quella “reale”. O può, come in Primer, mettere in scena un ingarbugliamento tale che il prevedere l’ennesimo salto temporale o di realtà passa in secondo piano rispetto all’ammirazione e il rispetto per uno sceneggiatore in grado di creare una tela non contraddittoria così complicata.
Smith non ha velleità di scrittura come i ragazzi di Primer. Ma, fortunatamente, ha anche mire ben diverse dalla banalità di Timecrimes. Innanzi tutto, a livello visuale può dare la paga ad entrambi i film. Con una piccola intuizione che coi viaggi nel tempo ha poca coerenza, ma con gli horror diamine sì, riesce a creare una delle immagini più spaventose e sanguinosamente riuscite che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni (ovvero la fine delle Sally).
A tale maggiore capacità visuale, Smith fa seguire anche una più spiccata affinità postmoderna tra il modo di raccontare la storia, quello che accade e la complessa interconnessione mentale tra la protagonista e il figlio. Di fatto, l’intero film non è altro che un lungo, initerrotto e colossale incubo autistico. Smith riesce a farci diventare autistici quanto il figlio di Jess e in sua stessa balìa.
Subdolamente, poi, il rifugiarsi in un incubo dal quale non si può uscire non è altro che un meccanismo di difesa. Un totale rifiuto della realtà, dovuto al senso di una colpa (diretta o indiretta che sia) che non ci lascerebbe vivere in pace con noi stessi, proprio come si vede nel recente e bellissimo Shutter Island. Ma Smith è bastardamente molto più pessimista di Scorsese: se il secondo vagheggia di una possibile autorinuncia cosciente e foriera quantomeno di pace, benché monchi, Smith spazza via ogni aspetto positivo. L’incubo non ce lo siamo scelti. E non è nemmeno una panacea anestetizzante. Ma è sangue su sangue, senza possibilità di fermarsi.
4 / 5
Saluti,
Michele
in mezzo al mare @__@
uno dei miei peggiori incubi..argh!