Variazioni

Terrorismo (Made in England)

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1 - Nel nome del padre
2 - Bloody sunday
3 - Il vento che accarezza l'erba
4 - Michael Collins

Eccoci giunti al secondo capitolo della variazione di variazioni dedicate all’argomento del terrorismo. Alla fine di questo viaggio saremo esattamente a metà strada di ciò che voglio raccontare. Facciamo le valigie, dunque, mettiamo la nostra P38 e i candelotti di dinamite nel bagagliaio e salpiamo. Lasciamo la nostra piccola Italia, con i suoi sogni kommunisti autoreferenziali e cerchiamo un centro di gravità permanente. Non serve andare troppo lontano per trovare qualcuno che, sebbene tanto autoreferenziale quanto le Brigate Rosse, sia però riuscito nel suo intento. Approdiamo quindi in Inghilterra dove ci attende niente di meno che l’IRA, l’esercito repubblicano irlandese. E vediamo come il cinema ha trattato questa compagnia di bombaroli che, volente o nolente, tra frange più o meno estreme, ha cacciato gli inglesi dall’isola d’Irlanda.



1 - Nel nome del padre

Jim Sheridan conosce alla perfezione la ricetta per essere sommerso da premi e nomination in giro per il globo (almeno prima di impazzire completamente dirigendo un film con 50 Cent). D’altronde questo film col bravo Daniel Day Lewis non arriva del tutto inaspettato: a spianargli la strada ci fu già Il mio piede sinistro, con lo stesso protagonista. Tutta la forza di questo film da sette nomination all’Oscar (e nemmeno un premio vinto) sta nel ruffiano paravento che fa da premessa a tutto quanto: la storia vera.
Sheridan racconta la storia verissima e romanzatissima di Gerry Conlon, imprigionato ingiustamente dal governo inglese dietro tortura e minacce con la falsa accusa di essere il responsabile di una strage in un pub. Qui non si vuole certo negare né la veridicità degli eventi presentati, né tantomeno la gravità delle azioni di servizi di governo deviati, pronti a crocifiggere con montature e falsità chiunque metta in discussione un potere che si vuole quanto più assoluto possibile, in barba a realtà e volontà del popolo. Il punto è che schermarsi dietro a questo messaggio innegabilmente giusto con un piglio da cavalieri senza macchia e senza paura e senza mai instillare dubbio e umiltà nei propri spettatori è non solo disonesto, ma anche del tutto sbagliato.
Come in Goodbye bafana ritorna il motivo del raccontare in maniera sbagliata qualcosa di giusto. Che risulta essere peggiore e fare più danni del raccontare qualcosa di sbagliato: perdi presa in coloro che sono coesi con la realtà e la giustizia. E offri un aggancio per coloro che invece contro questa giustizia combattono tutti i giorni e siedono nelle poltrone comode dei grandi palazzi.

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Voto (2/5):


2 - Bloody sunday

Questo film di Greengrass rappresenta la prima pietra di una poetica ben precisa con la quale il regista inglese svilupperà i nuovi canoni della branca più promettente dell’action di inizio secolo. Seguito dal più rotondo e completo United 93, questo Bloody sunday mira a farci diventare nord irlandesi per un’ora e mezza e ci immerge nella marcia di protesta che, a causa della repressione inglese, costò la vita a tredici persone.

Greengrass sviluppa l’idea della camera a spalla dentro l’azione. Prende in prestito da Mann uno stile sgranato e atto a riportare su pellicola, o su digitale che sia, l’impressione della totale realtà documentaristica. Diversamente da Sheridan, in Greengrass assistiamo a un cortocircuito tra la realtà della finzione e la realtà vera, al punto da distinguere difficilmente tra l’una e l’altra tanto la resa è ottenuta con sincerità, chiaroscuri e zone d’ombra. Una no man’s land ambigua che di fronte al bianco e nero di chi non accetta il minimo dubbio sulla propria ragione risplende di onestà e oggettiva qualità.
Manca l’elemento massmediologo che sarà poi uno dei cardini fondamentali di United 93, probabilmente la vetta di Greengrass. Ma non si può negare che ciò che caratterizza l’adrenalina dell’azione e la poetica della sceneggiatura dell’ottimo Green zone abbia qui le sue radici e il punto di svolta di un’intera cinematografia.

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Voto (4/5):


3 - Il vento che accarezza l'erba

Sul fatto che un film del genere tutto meritasse tranne che la Palma d’oro a Cannes credo che siamo più o meno tutti d’accordo. Non si riesce a capire come mai venga premiato un film del genere, che è nazional popolare nei suoi contenuti in quanto rappresenta proprio per tutta la sua durata personaggi nazional popolari. Non certo perché questa è la linea del pensiero di Loach (regia) e Laverty (sceneggiatore), una coppia di ferro ormai inscindibile dai tempi di Carla’s song, s’intende.
C’è da dire che l’accoppiata Loach-Laverty è sempre se stessa: in ogni occasione. Loach è incapace di fare capolavori, ma allo stesso tempo è incapace di fare brutti film. Un po’ la stessa cosa che amo dire di Winterbottom. Loach parla col cuore ed espone con la sbagliata passione di uno sprovveduto armato di tanta buona volontà una vicenda che lo tocca nel profondo. Non ne può uscire altro che un fiume di banalità: di banalità buone, detti popolari, imprecazioni per un mondo che va sempre più alla rovina.

Non vale la pena cercare simbologie e significati reconditi in un film di Loach. Anche il destino dei due fratelli che da prima combattono fianco a fianco e poi si trovano su due diverse barricate non rappresenta, in realtà, per nulla un doppio destino dell’anima d’Irlanda. Loach vuole più che altro dire: “Shit happens”. Se davvero sei disposto a morire per una causa, beh… Non ti puoi certo lamentare se alla fine ci muori per davvero.

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Voto (3/5):


4 - Michael Collins

Così come il vento che accarezza l’erba di Loach, anche il Michael Collins di Neil Jordan si trova appuntato al petto un premio non indifferente (se il primo si meritò la Palma d’oro, a Michael Collins andò il Leone d’oro a Venezia). Bisogna dare atto a Jordan di avere messo in piedi un film completo e piacevole a tutto tondo, e di aver diretto un Liam Neeson in stato di grazia praticamente alla perfezione.
Rimane il concetto di non abbassare il capo di fronte alle ingiustizie, ma, soprattutto, di non farlo in maniera furba. Rimanere ancorati a romantiche idee di onore nei confronti del nemico quando questo nemico non aspetta altro che giocare sporco per schiacciarti al tappeto è fondamentalmente un errore grossolano. Certo: Jordan in questo pecca nel non voler scavare più a fondo cosa significa farsi carico di una lotta del genere e sacrificare la propria dignità per la libertà altrui.
In altre parole il suo Michael Collins ha grandi pretese autoriali, che perfino gli sono state riconosciute dalla giuria di Venezia. Ma a tali pretese non corrispondono effettive qualità: tutto è dove ci si aspetta che sia. E questa è proprio l’ultima cosa che dovrebbe essere premiata in un autore che decide di raccontare qualcosa di così controverso.

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Voto (3/5):




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