Variazioni

Mi smezzo in due

OstacoliFilm

1 - Il pianeta delle scimmie
2 - Match point
3 - Hiruko the goblin
4 - La ricerca della felicità

Per questo turno ho deciso di mettere in piedi una variazione sorella quasi gemella di quella pubblicata qualche settimana fa. Se allora intendevo andare a considerare il non plus ultra della forte personalità e identità artistica quando essa è libera da qualsivoglia freno, oggi mi dedico all’esatto opposto. Prendo di nuovo in considerazione i registi che si sono fatti conoscere e amare per delle precise caratteristiche e stilemi espressivi, delle filmografie di grande coerenza, per andare ad individuare le loro note stonate. I passi nella loro carriera, cioè, che con questa sinfonia non vanno tanto d’accordo. Per scoprire qualche cosa di interessante su questa “coerenza”. Per alcuni può essere l’assoluta necessità di declinare tutti gli aspetti della loro poetica, per altri mero auto-plagio per vendersi bene al pubblico. A Five Obstructions l’ardua sentenza.



1 - Il pianeta delle scimmie

Tim Burton è uno di quei registi che rimane vittima della propria fama. Alle sue spalle un grandissimo Batman e uno stile tecnico e narrativo sicuramente azzeccato e non troppo comune. Accade che sforna un grandissimo capolavoro, Big Fish, ma si capisce subito che qualcosa si incrina. Burton progressivamente, vittima di se stesso, diventa l’idolo dell’emo boy.
Eppure ci ha provato il buon Tim. Ci ha provato nel passato a svincolarsi dalla logica del gotico e della stop motion a tutti i costi. Ne è uscito, tra gli altri, questo pianeta delle scimme. Un film in cui è quasi impossibile riconoscere la sua mano. E’ un classicissimo ammodernamento dell’originale con Charlton Heston, niente di più, niente di meno. Un adattamento i cui temi sono il diverso, la vanagloria dell’eccessivo zelo e l’autodistruttività dell’uomo.
Temi che nessuno si aspetterebbe da un regista così fantasy, così dark, così emozionale. E che associati a Burton hanno sempre stonato. Eppure se lo si guarda a fondo ci si accorge che tanto brutto questo pianeta delle scimmie non è. E’ anonimo, indubbiamente. Ma la superba interpretazione di Tim Roth, che riesce ad essere incredibilmente espressivo anche dietro una maschera di gomma, vale per intero il prezzo del biglietto.

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Voto (3/5):


2 - Match point

Woody Allen è invecchiato. E fin qui nulla di male, né di inevitabile. Il caro vecchio zio del cinema però non è minimamente intenzionato a gettare la spugna. Dato che la verve che aveva venti anni fa ormai per lui è assolutamente impraticabile ha deciso di darci un taglio con le vecchie manie (ad eccezione del deludente Basta che funzioni, troppo buonista e parlato per funzionare sul grande schermo). Il risultato è Match point, che è in realtà il capostipite della new wave di Allen.

Innanzi tutto cambia lo scenario. Via America, benvenuta Europa. In particolare l’Inghilterra. E’ riuscitissima l’ambientazione per il buon Woody, molto di più della stessa stantìa Inghilterra, o di una Spagna che non riesce a capire, del suo inevitabile futuro. Match Point funziona, su tutta la linea. Con i suoi discorsi sul caso, con la vita che prende sempre la piega peggiore. Talmente peggiore che il buon Woody, che ancora se la starà ridendo per questo brutto tiro, riesce a farti tifare come un forsennato per un assassino, sperando che ce la faccia.
E Match Point ce la fa. Molto più di tutto il resto. Certo: in Scoop ironicamente Woody si mette sulla barca di Caronte, metaconsapevole del suo destino. Ma Match Point è un film fatto e finito. Di Allen ha poco e niente, ma fortunatamente questo non importa affatto.

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Voto (3/5):


3 - Hiruko the goblin

Una filmografia che della coerenza ha fatto l’arte. Rari sono gli esempi di registi che, come Tsukamoto, hanno saputo evolversi e declinare la propria poetica rinnovandosi costantemente eppur rimanendo forti e classici. Forse il Cronenberg la cui parabola da Crimes of the future alla Promessa dell’assassino. Incredibile però questo inciso a colori e perfettamente inserito nel teen horror giapponese targato 1991.
Ancora più incredibile se lo si vede inscritto tra i due Tetsuo. In realtà è perfettamente spiegabile: dato che Tetsuo è stato girato con una camera, con meno di 20000 euro e con più di tantissima arte, Tsukamoto ha pensato bene di concedersi un film su commissione per finanziarsi il seguito. Va quindi considerato senza arte né parte, questo Hiruko? Assolutamente no. Nella filmografia di Tsukamoto non trova posto, ovvio, ma la qualità che il simpatico regista dagli occhi a mandorla sa mettere in campo risulta sempre superiore a quanto possano sognarsi gli scribacchini della regia di mezzo mondo.

In particolare si rileva in questo Hiruko una fortissima vena ironica e dissacrante proprio nei confronti del teen horror giapponese degli anni ’80. E’ la fine giusta per gli scalmanati studenti tormentati da questo spirito che infesta il loro liceo. Si potrebbe quasi dire, e anzi lo grido a gran voce, che questo film di Tsukamoto rappresenta uno Scream ante litteram.

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Voto (4/5):


4 - La ricerca della felicità

Muccino per anni è stato un bersaglio incrociato. Da una parte i suoi contenuti ultra progressisti lo hanno sempre messo nel mirino di una (non) cultura dell’apparire e della malafede. Dall’altra il fatto che è un pessimo regista, buono solo a confezionare dei gioiellini tecnici, lo ha reso mal digeribile anche a chi poteva apprezzarne i contenuti. Vistosi preso a pomodori in faccia da entrambi i fronti (e il sottoscritto stava in prima fila col carico di ortaggi) ha pensato bene di fare le valigie e partire per l’America come gli italiani di inizio secolo scorso.
Con questo “La ricerca della felicità” da una parte abbiamo l’estremizzazione delle sue capacità tecniche. In America trova una troupe più ricca e preparata, che lo può assistere in suggestivi carrelli e riprese al limite del perfetto. Dall’altra realizza un tradimento colossale di tutto quello che voleva rappresentare in terra natìa. E che ha come risultato il farsi rendere doppiamente antipatico da tutti.
Il cantore del classico trentenne in crisi e del no-global da salotto diventa infatti un clamoroso sostenitore della politica reaganiana. Non esiste l’ingiustizia sociale, non esistono categorie costantemente svantaggiate e tradite: per il Muccino a stelle e strisce, il cui nuovo feticcio è un Will Smith affamato di Oscar, chi è nel fango ci sta perché è incapace o cattivo. Chi fallisce se lo merita e chi trionfa pure, a prescindere dai mezzi utilizzati, che sono tutti leciti se ti portano all’altare del successo. Questa è la sua ricerca della felicità. L’impossibilità di sentirsi realizzati anche nella preziosa mediocrità che ci dà il pane e ci dà da sopravvivere giorno dopo giorno di duro lavoro.

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Voto (1/5):




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