Variazioni

Hey, teacher! Leave them kids alone!

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1 - Donnie Darko
2 - The girl who leapt through time
3 - Elephant
4 - Non uno di meno

Il grigiore del cielo di questo autunno ormai ci ha avvolti tutti nelle sue braccia. Si torna al solito tran tran dopo gli ultimi scampoli di cielo azzurro. C’è chi, come me, in realtà non ha mai smesso di lavorare e c’è chi invece deve fare i conti con delle lunghissime ferie: gli studenti. Eh sì perchè erano bellissimi i tempi in cui a metà Giugno finivano tutte le preoccupazioni e per tre mesi ci si poteva dedicare a tutto ciò che più ci andava. Con la controindicazione che poi ricominciare era ancora più duro. Questa variazione è quindi dedicata a tutto lo studentame indistinto: film scolastici ma che non assumono il borioso punto di vista dell’insegnante (come in School of rock o ne l’Attimo fuggente). Spazio agli studenti quindi, alle loro paure, desideri e visioni della vita.



1 - Donnie Darko

Il film d’esordio del buon Richard Kelly ha avuto fin da subito una vita travagliata, ma si è affermato come un vero e proprio classico del cinema. Se si va ad indagare nei suoi meriti, però, ci si accorge che essi sono piuttosto sorprendenti. I suoi punti di forza infatti non sono rappresentati né dalla fantascienza, né dal mystery o dall’horror. Quello che Kelly è riuscito sapientemente a fare è stato quello di creare un meraviglioso e realistico ritratto dell’aria che si respira nei licei americani.

Sono infatti gli estenuanti insegnamenti stupidi di chi pensa che un insegnante possa essere rimpiazzato da una televisione a dominare parte della scena. O i guru mediatici che pur di raggranellare qualche spicciolo si inventano pagliacciate che costano il futuro degli studenti. Studenti che si ritrovano a dover sperare e puntare tutte le loro forze su bellezza, conformità e spettacolo per il proprio futuro, invece di costruirsi la propria strada con lavoro e merito sulle loro attitudini. Represse da una società troppo conformista (la cui ribellione rappresentata dall’insegnante Drew Barrymore è, ahinoi, la parte più debole e discutibile del film).
A questo punto risulta chiaro dove si collocano gli altri tasselli del puzzle di Donnie Darko che ne hanno fatto la fortuna. Viaggi nel tempo, conigli horror e fine del mondo non sono altro che le fantasie e le inquietudini che prendono corpo e somatizzano il malessere di chi è abbastanza intelligente da capire dove sta andando a finire la scuola e la vita che gli ruota attorno. E ha un disperato bisogno di fuggire da questo triste destino.

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Voto (4/5):


2 - The girl who leapt through time

Compiti in classe e pulizie. Ragazzi che si divertono con te (o di te) e prime cotte. La scuola, soprattutto l’ultimo anno prima di scegliere l’università, è un cocktail assolutamente unico di scocciature, divertimenti, ansie, paure e fascino. E tutti noi abbiamo il segreto desiderio non solo di avere una seconda occasione per tornarci, ma anche di poterla affrontare senza preoccuparci delle scelte da fare. Il potere di tornare all’indietro nel tempo fa sicuramente parte di questo sogno proibito.
Che cosa si scopre quindi viaggiando nel tempo? Si scoprono parti di noi che non sospettavamo esistessero. Si può capire che cosa sono i sentimenti che abbiamo provato per la prima volta, si può avere chiaro che ciò che decidiamo ha conseguenze irreparabili, se non si potesse tornare indietro (cosa che, effettivamente, non si può). La ragazza che salta nel tempo però ci fa capire anche un’altra cosa.
La cosa che ci fa capire è che questo potere è nient’altro che una sventura. Parafrasando Oscar Wilde, la tragedia più grande è ottenere ciò che desideriamo. Poter tornare indietro toglie tutta la magia del rischio, la consapevolezza di essere davvero in gioco. E’ come guardare una partita invece di giocarla. Lasciamo gli spalti agli altri e buttiamoci nel fango si decide alla fine. Questo dovrebbe essere il finale. Cosa che non accade del tutto, dato che questa ragazza alla fine rientra in fin troppo dolciastri clichè da shojo giapponese.

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Voto (3/5):


3 - Elephant

Ci sono dei grossi interrogativi suscitati da Elephant. Questi interrogativi nascono dall’abilità di Gus Van Sant di rendere la telecamera non un occhio esterno, ma uno interno. Scordatevi dunque prospettive a volo d’uccello, narratori onniscienti e perle di saggezza artistica da spandere per il mondo. La telecamera non è un professore, un giornalista o un poliziotto. La telecamera è uno studente.
Perfettamente in tema dunque con la scuola vista dagli studenti. E allora mentre questa telecamera passeggia per i corridoi del liceo vediamo la vita di tutti i giorni di un posto assolutamente banale e normale. Dobbiamo correre, inseguire piccoli frammenti. Inseguiamo ragazze bulimiche per cui la vomitata nei bagni è un rito di normale socializzazione, inseguiamo disadattati che non sono in grado di costruire un normale rapporto sociale con chi gli sta intorno, inseguiamo esseri fragili che si vergognano del loro corpo e inseguiamo feticisti delle armi che fanno strage dei loro coeatanei… Eh?

Sì, perché alla fine si scopre che questo luogo non era così normale come può erroneamente sembrare all’inizio. Che nessuno di questi studenti è normale come può apparire all’esterno. Nessuno di loro lo è. Il che si traduce nel fatto che lo sono tutti. Una delle tante cose che si possono estrapolare dalla creta grezza che è Elephant, sfaccettata e modellabile all’infinito, è anche un certo rifiuto dell’individuo estremizzato e fine a se stesso, le cui conseguenze sono Columbine, Winnenden, Lancaster.

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Voto (5/5):


4 - Non uno di meno

C’è da dire che non amo molto il cinema cinese. Soprattutto quello che va/andava per la maggiore negli ultimi anni, ovvero una rivisitazione più o meno riuscita del neorealismo italiano. I film cinesi infatti sono quasi tutti caratterizzati dal prendere una realtà cinese, quasi sempre lontanissima dalle metropoli, rupestre e tradizionale e raccontarne i problemi, le gioie, la genuinità. Insomma: a parte rari casi, mi viene in mente The sun also rises, molti film sembrano remake dei ladri di biciclette (come Courthouse on the horseback).
Zhang Yimou, prima di diventare famoso in occidente, si dedicava a questo tipo di film. Va da sé che non fosse uno dei miei cineasti preferiti. Però in questo Non uno di meno ci trovo del buono, molto buono. Innanzi tutto, a carattere generale, la storia della bambina a cui viene affidata una classe è ben girata, cattura e riesce, contro ogni aspettativa, a tenere altissimo il livello di empatia con il personaggio principale.
Secondariamente questo è un bell’inno ai valori del lavoro sodo e alla voglia di crescere che un paese bistrattato dai propri capi sa mettere in campo. La promessa di non perdere nemmeno un bambino dalla classe diventa incredibilmente difficile: tanta è la forza con cui gli indifesi vengono attirati nel mondo esterno per lo sfruttamento, le sirene del successo, il degrado e peggio. Forse il miglior Yimou.

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Voto (4/5):




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