Mi sdoppio in quattro
Questa volta penso che mi sia venuta finalmente una buona idea. Le ultime variazioni non mi hanno soddisfatto appieno, ma l’idea che sta dietro questa gustosa citazione (oddio in realtà il film originale non è che fosse questo capolavoro, ma bene o male è passato alla storia) è valida. In maniera simile a quanto fatto per la variazione sui cani che dirigono cani, qui prendiamo una precisa categoria di registi: quelli che hanno fatto del proprio stile un inconfondibile marchio di fabbrica. E come spesso accade presto o tardi chi si specializza in maniera così estrema tira fuori il così detto “capolavoro”: non necessariamente un lavoro migliore degli altri, ma di sicuro quello che esprime in ogni sua parte e a tutto tondo quelle che sono le caratteristiche del suo creatore. Proprio questi film vogliamo andare a scovare: l’elevazione al quadrato di una certa idea di cinema.
1 - Postal
Uwe Boll è il responsabile di tutte le peggiori trasposizioni di videogame in lungometraggio. Prendete un film tratto da un videogioco: se lo ritenete una schifezza talmente brutta e anonima da non meritarsi nemmeno considerazione (Far cry?) molto probabilmente è di Uwe Boll. E’ matematico. Questo personaggione tedesco è riuscito con la sua incapacità registica, ma abilità di marketing, a farsi un nome e adesso è uno dei registi più odiati (ma conosciuti) nel Web. Tuttavia anche quando si allontana dall’adattamento videoludico (vedi Seed) mostra tutta la sua mediocrità.
Cosa succede quando Boll decide di adattare un gioco già di per sé orribile e sconclusionato? Succede che ne esce un capolavoro. Prendendo in mano Postal Boll sapeva di avere una scaletta ben precisa da seguire: l’assurdo, l’eccesso, il politically uncorret ad ogni costo. E tanta mediocrità realizzativa, che era insita e voluta nello stesso videogame.
Ed è quello che il buon regista pugile ha dato ai suoi spettatori. Postal è un ammasso di scemenze autoreferenziali male pensate e peggio realizzate che riescono a trovare per miracolo un incredibile equilibrio. Il Postal Dude che impazzisce e comincia a menare mitragliate a destra e manca, i terroristi arabi, i nazisti, il creatore del gioco Postal che salta addosso a Boll per vendicarsi sono un concentrato di emerite puttanate talmente evidenti che risultano irresistibilmente esilaranti. Postal è un film da vedere, subito, senza pensarci due volte. Un’oasi liberatoria in cui nulla più rimane di sacro, ed è giusto così. Grazie per questo piccolo momento di lucidità, Uwe.
Voto (3/5): |
2 - Inland empire
David Lynch. Un nome una garanzia. Di cosa di preciso? Innanzi tutto di fascino. E’ innegabile che l’ignoto abbia il suo fascino, e Lynch ne è il perfetto poeta, glielo concedo. Perchè Lynch è bravo, sa raccontare storie e sa far sognare. Quando vuole. Ma è garanzia di incomprensibilità, anche. E già qua iniziano le note dolenti. Perchè lo sapete come la penso, l’ho espresso più volte e anche in occasione della mini recensione di Eraserhead: un regista di un film non può pararsi dietro l’incomprensibilità di una trama e lasciare che sia lo spettatore a fare il lavoro che sarebbe lui stesso chiamato a compiere.
Avvicinarsi a un’opera mastodontica come Inland Empire non è affatto semplice. Tre ore di lunghezza e la perfetta consapevolezza che Lynch si è espresso senza alcun vincolo: di tempo, di spazio e di pudore. E allora comincia il solito valzer dell’inserire elementi a caso e sconnessi l’uno all’altro solo perchè “fa figo” e ci penserà il fanboy a darci un significato. Sit-com di conigli, primissimi piani intensissimi di minuti interi e la solita gara a chi mette più nanetti in un film (ciao, In Bruges!).
Il risultato non poteva che essere quello che io chiamo “Effetto Lynch”, ovvero uno spettatore che esce dalla sala (e dopo tre ore del genere è già tanto riuscire a uscire sulle proprie gambe, beninteso) che esclama: “Non ci ho capito niente, figata!”. Eh no. “Non ci ho capito niente: incapace!” ribatto io.
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3 - Ferro 3
Kim Ki Duk è uno di quei registi che sembrano nati per creare un circolo unico e coerente di contenuti. Lo spalleggiano, in questo intricarsi progressivo di film concatenati l’uno all’altro, ad esempio lo Tsukamoto di Tetsuo e Wong Kar Wai di Angeli perduti. In particolare Kim Ki Duk disegna una grandissima parabola che parte dal Wild Animals del 1997 in cui affronta un progressivo distacco dalla realtà per affrontare le sfaccettature dell’interiore, del reale nel suo rapporto con la finzione e delle cose nella scoperta della loro reale natura. Parabola che non è solo di temi ma anche qualitativa. E al cui apice sta Ferro 3.
Immaginate un film il cui protagonista maschile non dice una parola e la cui amante protagonista femminile dice solo due frasi: “Ti amo” e “La colazione è pronta”. Immaginate che questi due amanti viaggino di casa vuota in casa vuota riempiendole con il loro amore, silenzio, musica e ordine (la metafora della vita congiunta) mentre i legittimi proprietari sono lontani. Immaginate una coppia che di fronte alla morte di uno sconosciuto si piega nel fornirgli una sepoltura più che degna.
Questo e molto altro rendono Ferro 3 un’esperienza da vivere prima ancora che da capire. Un film che non vuole insegnare, ma finisce per farlo: insegna la leggerezza di come si affronta una vita (la scomparsa nella prigione). Sull’essere invisibili ma costantemente palpabili. “Non è dato sapere se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà”, questo chiude il film. E lo ben rappresenta. Una frase che a seconda di come viene detta può essere incredibile vuoto e banalità, o piena di semplicissime e profonde sfaccettature. Kim Ki Duk la sa pronunciare nel secondo modo.
Leggi la scheda del film >>>Voto (5/5): |
4 - Ghost in the Shell 2: Innocence
Un certo tipo di animazione giapponese è poggiata su pilastri più o meno fissi. Fantascienza più o meno esplicita, contenuti che cercano di esprimere aspetti importanti della filosofia orientale e non, potenza visiva e visionaria, surrealismo e postmodernismo. Uno di questi pilastri si chiama Mamoru Oshii. E questo era chiaro fin da Patlabor, nell’89, senza star a scomodare nomi ben più famosi. Come questo seguito a Ghost in the shell, che nel 2004 ha posto una pietra miliare nell’animazione sancendo un nuovo punto di non ritorno.
Ghost in the shell è una serie animata il cui tema principale è l’anima, il ghost. Oshii si interroga da dove provenga l’animo umano, cerca di studiare il corpo e il cervello per capire che cosa rende così speciale l’uomo. E la sua risposta è pessimistica: secondo lui non c’è nessuna magia, niente di speciale. Perché l’anima dell’uomo può essere tenuta prigioniera, replicata o migliorata. Nel primo Ghost in the shell infatti l’evento principale era la creazione di un nuovo essere senziente emerso autonomamente dall’iperconnessione della rete informativa umana (leggi: Internet, nel 1995!). In questo seguito sono delle bambole (versioni cibernetiche di quelle in carne e ossa di Dollhouse) che sviluppando autocoscienza del loro essere si rifiutano di sottoporsi a continue umiliazioni e all’essere usate come oggetto.
Corpo umano usato come oggetto, altra testimonianza di come, per cercare profondi significati al cinema di Oshii, sia necessario scavare ben più a fondo della patina filosofeggiante che ricopre tutto. Un altro elemento del film, che bisogna ammettere rischia di renderlo eccessivamente pesante a chi si aspetta un action simile agli altri esempi nipponici, è una pletora immane di citazioni estreme ad aspetti della cultura orientale e occidentale. Chiudo invece annotando l’uso della computer grafica come un difetto: è si l’apice del non ritorno estetico nipponico, ma in questo caso è troppo grezza ed evidente per essere funzionale a ciò che si vuole esprimere.
Voto (4/5): |