Holdem
Il gioco d’azzardo è un argomento molto cinematografico. Innanzi tutto è facile costruire su di esso storie appassionanti e molto profonde sul senso del caso, dell’abilità, del rispetto delle regole. Storie che spesso coinvolgono al punto da mettere in gioco l’intera vita di chi precipita in questo baratro, sicuro che la sua abilità lo renda speciale e in grado di riuscire dove gli altri hanno fallito. Inoltre sono spettacolari le partite reali, cosa che rende l’azzardo un interessante trampolino stilistico, una variante sedentaria dei duelli tra cowboy durante il mezzogiorno di fuoco. Proprio per catturare diverse interpretazioni di questo spettacoli pongo l’ostacolo che ogni film debba essere incentrato su una particolare variazione delle tanti esistenti di poker. Inoltre non voglio parlare solo di film statunitensi, per capire come questo gioco, tipicamente americano, si ripeta uguale in giro per il mondo, aumentando l’idea di essere semplicemente una modalità cui avviene una sfida tra personalità, sfida che potrebbe essere svolgersi con pistole, spade o a mani nude.
1 - Le regole del gioco
In questa coproduzione australiana non si può proprio dire che il centro del film sia il poker o il gioco d’azzardo. Il personaggio interpretato da Eric Bana è sì impegnato in scommesse e azzardi per tutto il film, ma non è la sorte ad essere combattuta. In realtà il gioco è solo un mezzo e non è trattato come molto altro. Non credo che sia un film in grado di appassionare davvero qualcuno che voglia trovarsi di fronte a una rivisitazione, ad esempio, di Rounders.
Cosa c’è allora in queste regole del gioco? C’è fondamentalmente una relazione padre-figlio. Argomento vecchio quanto e più del cinema, al quale questa pellicola ha veramente poco da offrire. Al tavolo verde infatti si scontrano due mentalità e concezioni opposte della vita: l’azzardo sbruffone che rischia tutto e il cauto meditare. Concezioni opposte solo perchè devono esserlo, perchè il padre è visto come ostacolo, nel senso atletico del termine: qualcosa difficile da superare per riuscire ad essere quello che si vuole essere.
Bizzarra la conclusione, forse buttata lì solo per cercare una sparata ad effetto. Rimangono le scommesse fatte col bel faccione di Bana, che danno un tono divertito e goliardico al film. Un’ora e mezza alla fine spesa piacevolmente, ma di cui dimenticarsi dopo poco.
Voto (2/5): |
2 - Il passato è una terra straniera
Questo terzo film di Vicari, assieme a Velocità massima e L’orizzonte degli eventi chiude un tris perfetto di regine in quella che potremmo chiamare la trilogia della manipolazione. Se in Velocità massima si manipolavano i motori e nell’orizzonte degli eventi i dati di un esperimento scientifico qui tocca alle carte da gioco. Se Vicari ha un merito è di certo quello di aver trovato un tema intrigante e di averlo sviluppato ancora meglio senza mai riciclarsi o finire a usare soluzioni banali.
La domanda che questa volta pone è: se arrivasse un angelo a prometterti la vittoria in qualsiasi partita di telesina che cosa faresti? Il protagonista è un pragmatico, che sceglie di ripudiare le lettere del padre per scegliere la solida e sicura carriera di avvocato. Ma d’un tratto arriva questo dono: il dominio sul caso. Che senso ha quindi preoccuparsi di una professione solida? Che senso ha quando si possono manipolare carte, soldi e vite degli altri? Da qui comincia una strada fatta di bluff, la manipolazione tollerata della realtà, e bari, quella più rischiosa e remunerativa.
Comincia una strada fatta di soldi, nascosti come un cuore nei vecchi e vuoti polverosi libri di filosofia. Storia fatta di sesso, soddisfazione di tutti i propri istinti, e violenza: l’esplosione inevitabile e intollerabile di quando il potere di manipolare non trova un freno: di mezzi come in velocità massima o dell’onestà degli altri come nell’orizzonte degli eventi. Vicari raggiunge uno stile personale e lontano da ciò che ci si aspetterebbe, nel suo film forse più convenzionale, ma tecnicamente meglio realizzato.
Voto (4/5): |
3 - Maverick
Questo film può essere giudicato, nei suoi meriti e nei suoi difetti, sapendo semplicemente che ha come protagonista Mel Gibson (o, per essere più precisi, “divo hollywoodiano a caso coinvolto nella produzione del film”). Perché a partire da questo semplice dato si sa che tutta la pellicola sarà quasi certamente un paio d’ore di one man show.
Show che può anche essere divertente. E Maverick lo è senz’altro, complice una sceneggiatura dotata di un umorismo piuttosto banalotto ma comunque in grado di strappare qualche sorriso. E complice soprattutto la regia esperta di Donner, che ha al suo attivo qualche errore vergognoso, ma che non si può certo considerare come il primo venuto. Il problema è che il film pecca e crolla miseramente sulla struttura portante principale di un film di poker, di sfide, di contrasti.
In questo film esiste solo Mel Gibson. La telecamera ruota attorno a lui e a nessun altro. E’ indiscusso che lui sia il migliore, non importa chi ha davanti (personaggi di profondità parti alle carte che hanno in mano). Se perde è solo perché ha un piano, se vince è ordinaria amministrazione. Detto questo: dov’è il pathos? Dov’è la sfida? La scoperta dei propri limiti? Da nessuna parte: Maverick non vuole essere altro che le piccole battute presenti qua e là nella sceneggiatura.
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4 - Fat Choi Spirit
Fat Choi Spirit è, prima di tutto, una giocosa parodia della filmografia epica e nazionalista cinese à la C’era una volta in Cina e Fist of legend. Vista con questi occhi, o anche con i semplici occhi che hanno bisogno di una leggera e frizzante commedia quasi romantica, non si può non apprezzare questo paradossale ruotare della trama attorno al mahjong. Gioco che assurdamente si innalza a metro di vita di un intero gruppo di persone, fino ad arrivare addirittura a materia di insegnamento nella fantastica scena finale.
E allora attorno alle estenuanti e adrenaliniche partite con i tasselli di legno si crea un mondo intero. Il gioco è lo sfondo in cui avvengono battaglie e rivincite, amori e svago, in un turbine di personaggi che attorno al mahjong mettono ognuno la propria parte di vita.
Inutile attendersi chissà quale profondità o significati di fronte a questo colorato lungometraggio. Johnnie To infatti ci abitua ad essere uno dei volti più importante della new wave poliziottesca di Hong Kong, con il pregevolissimo Exiled (miglior film del 2006), ma sa essere capace, assieme a Ka-Fai Wai, di non prendersi troppo sul serio con divertenti e spensierate commedie come questo Fat Choi Spirit o My left eye sees ghosts.
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