La resistenza del 20%
Di recente ho letto un bel micropost di Seth Godin e mi va di ricamarci su personalmente. Godin è una persona sagace, non credo che si meriti tutta la popolarità che ha sul web, ma di certo non è tutta interamente a sproposito. In questo caso, infatti, mi trovo d’accordo oltre ogni limite immaginabile, e userei il post che oggi commento come secondo manifesto di Five Obstructions. (Che onore! Immagino che in questo momento Godin sia tutto un fremito)
L’articolo di cui vi parlo ha un titolo vagamente simile a questo post, Alienating the 2%, e si può trovare seguendo diligentemente il link. Prima che comincino gli sproloqui, la doverosa premessa che faccio (o dovrei fare) quasi sempre. Godin scrive poco, un’idea, un frammento, ed è totalmente autoconclusivo ed equilibrato così. Io invece, al solito, ricamerò come una diligente Penelope un mare di righe e alla fine l’intervento non avrà nè capo nè coda. Posso dire che in quanto a post impressionisti me la cavo parecchio bene.
L’intero punto del post di Godin è che ad ogni novità, innovazione o evento, qualcuno troverà qualcosa da ridire. Questo qualcuno, che solitamente è un’estrema minoranza, in quanto scontento ha maggiori probabilità di alzare davvero la cornetta del telefono e comunicare le proprie lamentele. Ovunque, per qualsiasi cosa. Ne consegue che innovare significa ricevere soprattutto lamentele. Il modo per smettere di ottenerle? Smettere di innovare e rimanere nella stasi.
Esiste un piccolo punto quantitativo da apporre al ragionamento di Godin. Fondamentalmente non credo che le lamentele vengano solo dal 2% della popolazione. Se c’è una piccola cosa che il mio lavoro mi ha insegnato è quella della regola d’oro 80-20. L’80% delle risorse è in mano del 20% della popolazione. O, per dirla in astratto, l’80% degli effetti è generato dal 20% delle cause. In questo caso, io parlo anzi della resistenza del 20% (da cui il titolo). Ma si tratta di una precisazione che, per quanto importante (Godin minimizza la realtà), non cambia il succo. Il suo interesse è quello di far percepire l’idea, non di mettersi a fare conti.
Perciò saltiamo questa obiezione di poco conto ed applichiamo la logica di Godin al cinema o alla critica d’arte in genere. Anche qua scopriamo che stiamo nello stesso campo da gioco della tecnologia. L’arte è, da sempre, innovazione. Se non si innovasse, saremmo ancora ai dipinti senza le prospettive, ad esempio. O alle statue etrusche che, non me ne vogliano i miei lontani antenati, saranno anche bellissime ma non sono il Davide di Michelangelo. Dato quindi questo esempio, che considero definitivo, una questione pare assodata. L’innovazione nell’arte è un bene perché porta ad avere cose nuove, tecnicamente migliori, rappresentazioni sempre diverse della realtà e della verità che solleticano il nostro cervello.
Eppure, anche qua, esiste la resistenza del 20%. Una resistenza assordante, chiassosa, che premia lo status quo e si scaglia feroce contro l’innovazione. E, attenzione, qui non sto parlando del semplice fatto che i cinema straripano di produzioni superficiali lasciando a casa le profonde innovazioni di certo cinema autoriale, snobbate dalla massa. Perché la dicotomia tra l’avanguardia e il grosso del mondo artistico non si può certo criticare in maniera così facilona. Quello contro cui mi scaglio è il pregiudizio verso il nuovo che si intrufola nel mainstream.
L’esempio è presto fatto. Ovunque, da anni, c’è una rivolta costante contro la camera a spalla nei film d’azione. In moltissimi si scagliano contro questo espediente a prescindere da come sia realizzato: sia che effettivamente conduca alla confusione senza un perché, sia che invece rappresenti precisi contenuti interlacciati a livello semantico e sceneggiativo (Green zone di Greengrass, autore anche degli ultimi due Bourne, tanto per non fare nomi). Quello che si premia, invece, è la finta innovazione che innovazione non è, in quanto programmata e messa in atto con organizzazione militare da una produzione centralizzata (Cameron con Avatar, rimanendo in linea con la mia ritrosia a fornire esempi).
Quello di cui non ci si rende conto è che l’innovazione che arriva ora nella sala mainstream è fatta da una valanga artistica che parte da lontano. Che è stata provata e riprovata dai pionieri e resa un pezzo insostituibile del linguaggio artistico. Ad esempio i nobili natali della camera di Greengrass altro non sono che il cinema di genere, soprattutto il giallo di Fernando Di Leo, degli anni ’70 italiani. Che aveva già cominciato ad uccidere la struttura narrativa tipica degli anni 80 prima ancora che essa prendesse piede.
Purtroppo la resistenza del 20% continuerà imperterrita a preferire The expendables a Green Zone, Pierce Brosnan a Jason Bourne. Senza nemmeno accorgersi che i bei tempi passati al quale si appellano non erano tali in quanto diversi da adesso. Allora come ora il compito del blockbuster era compiacere la maggioranza per ottenerne i soldi. E se perfino i blockbuster hanno abbandonato la narrativa 80s… Beh un motivo ci sarà. (Emblematico è proprio il passaggio da Brosnan a Daniel Craig, un James Bond nettamente migliore di Connery, sul quale varrebbe la pena scriverci un libro)
D’altronde l’intero post si potrebbe riassumere con le due righe che ora utilizzo come chiusura. E che avrebbero comunicato lo stesso messaggio. Ordunque l’80% indisposto dal mio post poco innovativo e di vecchio stampo possono inveire contro di me a loro discrezione attraverso commenti o e-mail
La chiusura infatti è dedicata al sito Two things. Tesi di fondo è che in ogni ambito umano esistono solo due cose importanti e tutto il resto è corollario di esse. Bene, eccho “The Two Things about Art Criticism”:
1. If it isn’t novel, critics aren’t interested.
2. If it is novel, no one else is interested.
Parole d’oro.
Saluti,
Michele