Teenage perversion
Come dissi nel post di fine 2008, in cui tiravo le somme del mio anno solare cinefilo, ho un problema con i film coi ragazzini. Li comincio ad odiare visceralmente dal profondo, per la loro assoluta assenza di originalità (sono tutti uguali, tutti fottuti inni al vedere le cose con gli occhi del bambino, alla semplicità che ti fa apprezzare le piccole cose… basta!). Sono arrivato al punto di considerare la geniale scena di Feast come una vera soddisfazione personale. Proprio per questo voglio provare a dedicare una variazione a tutti quei film che scelgono dei protagonisti in giovane e tenera età e li collocano in un contesto (narrativo o scenografico) tutt’altro che rose e fiori. Per vederli soffrire, quei maledetti! Ma soprattutto per vedere, finalmente, una visione non stereotipata della vita minorile.
1 - 15: The movie
Si può tranquillamente dire che questo film filippino sia una delle più riuscite trasposizioni su pellicola di un fumetto o forse, esagerando, di una tematica esistenziale. E’ il frutto infatti di un lavoro meticoloso di riduzione della tecnica di ripresa a punto di vista dei personaggi rappresentati. Ovvero: dato che i personaggi e protagonisti di questo film sono dei quindicenni allora il film stesso è rappresentato in tutti i suoi dettagli (sceneggiatura, montaggio, fotografia) come se fosse visto (o per meglio dire fatto) da un quindicenne.
Il risultato è qualcosa di veramente ostico per lo spettatore. Perchè montaggio sincopato e flash di luci sono serviti in maniera barocca, gratuita e irritante, e tutto questo è voluto, perchè facente parte di una ben precisa scelta comunicativa portata al suo estremo. E pone una domanda interessante: fino a che punto ci si può spingere nella ricerca di uno stile espressionista che si adatti come l’acqua alla tematica e ai punti di vista trattati? Spesso si tacciano film di troppa impersonalità, di stile omogeneizzante e asettico che tratta senza una visione veramente artistica differenti storie che meriterebbero ben altri stili (lo so perchè l’ho fatto più volte). L’estremo opposto è 15, ed è quindi logicamente qualcosa di sempre buono e riuscito?
Per quanto mi riguarda no. E’ ancora per me da stabilire, ma credo esista un punto di non ritorno oltre al quale dare un taglio eccessivamente espressionista o comunque personale è altrettanto deleterio all’assenza di un progetto stilistico. Per certi versi la visione di 15 è estrema quanto quella del film blu di Jarman, e per lo spettatore può essere altrettanto ostica.
Voto (2/5): |
2 - Sweet sixteen
Il cinema di Ken Loach è da sempre fatto di eccessi. E se è vero che da un lato questo può renderlo affascinante, da un altro punto di vista è un terribile male che rende i suoi film assolutamente indigesti e faziosamente chiusi in se stessi. In tutta la sua immensa filmografia sociale, però, Sweet sixteen spicca come uno dei pochi esempi in cui gli eccessi riescono ad amalgamarsi alla storia, a diventarne funzionali e a far sentire di meno il loro peso sulle spalle dello spettatore.
Quella che viene narrata è una storia di ascesa al potere comune a molti film sulla falsariga di Scarface, per richiamarsi all’esempio forse più celebre. La differenza è che ad attuarla è un ragazzo di quindici anni, che da piccoli crimini diviene prima spacciatore e poi affiliato a un’organizzazione che lo spinge fino ad azioni drasticamente più gravi. La trovata intelligente è quella di lasciare in totale sospeso (sia nella risoluzione del film che più sottilmente con lo sguardo della telecamera) il giudizio che normalmente un altro cineasta avrebbe dato al proprio protagonista.
Ovviamente non sto dicendo che Loach guardi con occhio neutrale al ragazzo interpretato magistralmente (come suo solito) da Martin Compston e a tutto ciò che gli ruota attorno. Non è un regista capace di farlo, non ne ha la sensibilità. Ma il freno che si è posto è abile e intelligente nel centellinare queste considerazioni in quello che è sicuramente il suo film più asciutto. Lontanissimo da pacchiane e nauseanti banalità sul “bianchi e neri che ce importa, volemmose bene” presenti ad esempio in Un bacio appassionato.
Voto (3/5): |
3 - Il giardino delle vergini suicide
Sofia Coppola con questo film si è dichiarata poetessa. Con tutta probabilità (anzi quasi certamente) non è il suo film migliore, in quanto le stesse tematiche sono state rielaborate con più maturità e malizia nei due lungometraggi seguenti, particolarmente in Lost in Translation. Ma l’idea della forza interiore, della volontà di vita e di esperienza tipicamente femminile pone le sue radici nell’albero tanto amato dalle vergini del titolo.
Diviene poetessa perchè riesce a rielaborare dei sentimenti complicati, delle pulsioni che vengono dall’interno dell’anima di ragazze ingenue e ancora nuove alla vita che ancora non hanno conosciuto. Questa rielaborazione è un lungo processo di esteriorizzazione che ha il suo culmine con un’opera artistica unica, che riesce a dare un nome vero a queste pulsioni. Operazione che in fondo sta alla base dello stesso concetto di poesia: prima che un poeta lo descrivesse nessuno aveva mai associato il concetto di amore a tante e tali sfaccettature.
E lo stesso avviene davanti all’obiettivo della macchina da presa della figlia di Francis Ford Coppola. Prende corpo quell’inquietudine tutta adolescenziale, quel malessere riposto nel sospetto di non riuscire a poter vivere tutto, in pienezza e completezza con se stesse che magari può passare inosservato, banalizzato o volgarizzato, ma che è presente nelle pieghe dell’animo di chi è abbastanza sensibile per accorgersene. Non solo Sofia lo ha certamente subito, provato e superato, ma l’ha anche capito e reso comprensibile da tutti.
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4 - Elephant
Quando si ha un problema grande quanto un elefante l’unica cosa possibile per il cervello umano è quello di dividerlo in sotto problemi e cercare una risposta ad essi. Il problema sorge quando la riduzione in sotto problemi non è sufficiente perchè anche ognuna di queste variabili si scopre essere essa stessa grande come un altro elefante. L’elefante iniziale è il liceo di Columbine, le sue variabili sono i ragazzi che lo abitano.
In altre parole Gus Van Sant ci pone di fronte il preoccupante interrogativo di un disagio giovanile che ha trovato per una serie di ragioni un terreno fertile. E in questo terreno è esploso con una violenza mai vista. E vuole prenderci per mano e farci letteralmente inseguire (con straordinarie scelte di piani sequenza e movimenti di macchina) i ragazzi che lo rendono vivo in un giorno come gli altri che non è come gli altri.
Lontano anni luce dai facili indici accusatori del Bowling for Columbine vuole mettere a nudo quello che può essere successo per capire che… Che in realtà non c’è niente da capire, o meglio di comprensibile. Tutti i punti di vista espressi, tutti i tasselli del puzzle fanno parte di un quadro cubista, a tre dimensioni o forse trenta, non indagabile dalla mente umana fino in fondo, ma spietato come una bomba ad orologeria. Come un perfetto scienziato, ma artista, è consapevole che una grande opera non può dare risposte nè facili nè difficili, può solo spingere a farsi le giuste domande.
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